C’è una stanza chiusa, con le tende tirate e il rumore sordo di una tastiera che rompe il silenzio. Dietro quella porta, c’è un giovane che ha scelto di ritirarsi dal mondo. Non per capriccio, non per pigrizia, ma per una profonda disconnessione emotiva e sociale.
Questo è il fenomeno degli hikikomori.
Una realtà che, nata in Giappone, si sta diffondendo in tutto il mondo, diventando uno specchio inquietante delle fragilità della società contemporanea.
Gli hikikomori sono giovani, a volte appena adolescenti, a volte giovani adulti, che decidono di isolarsi dalla vita sociale per mesi o addirittura anni. La loro unica finestra sul mondo è spesso il web, che diventa un rifugio, un mezzo di sopravvivenza, ma anche una prigione. Non studiano, non lavorano, non interagiscono con gli altri se non attraverso uno schermo. E dietro questa scelta estrema c’è un grido di aiuto che raramente viene ascoltato.
Le cause del fenomeno sono molteplici e complesse.
Viviamo in una società che pone enormi pressioni sui giovani.
Eccellere, avere successo, conformarsi a standard sempre più alti.
Per chi non riesce a reggere il peso di queste aspettative, il ritiro diventa una forma di resistenza. L’hikikomori non è solo un rifiuto della vita sociale, ma una protesta silenziosa contro un sistema che sembra non avere spazio per la vulnerabilità, per l’errore, per l’imperfezione.
Il web, in questo contesto, è un’arma a doppio taglio.
Da un lato, offre un rifugio, un luogo dove gli hikikomori possono esistere senza giudizio, interagire senza esposizione diretta, trovare comunità che condividono il loro stesso dolore.
Dall’altro, il web amplifica il loro isolamento, rendendo ancora più difficile il ritorno alla vita reale.
L’universo digitale è un mondo senza rischi immediati, ma anche senza le gioie autentiche che nascono dall’interazione umana diretta.
Una sorta di anestesia sociale che, nel lungo periodo, accentua la disconnessione.
Il fenomeno degli hikikomori è un problema individuale, ma è anche un sintomo di una malattia collettiva. La società contemporanea ha costruito un modello che sembra premiare solo i più, i più competitivi, i più adattabili.
Ma cosa accade a chi non si riconosce in questi valori?
A chi sente di non essere abbastanza?
Gli hikikomori sono il riflesso di un mondo che ha smesso di valorizzare l’umanità nella sua complessità, che ha dimenticato come sostenere chi si trova in difficoltà.
Affrontare il fenomeno richiede uno sforzo collettivo.
Non si tratta solo di riportare i giovani isolati nella vita sociale, ma di ripensare i modelli culturali e sociali che hanno portato a questa crisi. La scuola, per esempio, dovrebbe essere un luogo di inclusione, non di competizione esasperata. Le famiglie dovrebbero essere sostenute nel creare ambienti dove i giovani si sentano accettati, indipendentemente dai loro successi o fallimenti. E la società, nel suo insieme, deve imparare a riconoscere che il valore di una persona non si misura in produttività o status.
Il fenomeno degli hikikomori è un segnale di allarme che non possiamo ignorare. Ci dice che qualcosa non va nel modo in cui stiamo costruendo il futuro, che stiamo perdendo pezzi di una generazione che dovrebbe essere il motore del cambiamento. Ma è anche un’opportunità per fermarci e riflettere, per chiederci che tipo di società vogliamo costruire.
Una società che isola e dimentica, o una società che accoglie e sostiene?
La risposta a questa domanda non determinerà solo il futuro degli hikikomori.
Ma di tutti noi.
Con rispetto, Nicola