ChatGPT e AI: l’innovazione parlerà solo inglese?
Le intelligenze sintetiche stanno facendo progressi enormi e in tempi sempre più rapidi. I risultati sono stupefacenti così come i vantaggi e i pericoli, a partire da una spaventosa omologazione linguistica e di pensiero che mette a repentaglio uno dei valori maggiormente tutelati, almeno sulla carta: la diversità in ogni sua declinazione.
Giovanni Runchina
Giovanni Runchina
10 Febbraio 2023
Tempo di lettura: 4 minuti

Sollecitato dalle recenti e acute riflessioni di Michele Kettmajer a proposito di un’evidente omologazione linguistica che è alla base del fenomeno del momento, ChatGPT, e più in generale dell’intelligenza artificiale, mi pare sempre più evidente uno sbilanciamento complessivo del dibattito pubblico e dell’attenzione sugli aspetti tecnologici di questo fenomeno a danno delle riflessioni, urgenti e vitali, sulle modalità di creazione di questa tecnologia. 

Proprio Kettmajer in un suo post su Facebook dal titolo “Il colonizzatore Chatgpt” ha il grande merito di concentrarsi sul rischio di appiattimento linguistico e culturale di Chatgpt e non solo con parole chiare ed efficacissime «[…] per imparare viene istruito da un’enorme quantità di dati. Questi dati pare siano circa per il 97% in lingua anglofona. E così noi interroghiamo l’oracolo; apprendiamo, impariamo, facciamo presentazioni, lezioni, compiti, qualche poesia, per ora stonata, in un contesto monoculturale. OpenAI colonializza cosi anche le grandi e indispensabili diversità culturali e linguistiche». 

Quel 97% è un dato che fa spavento perché sotto la fanfara del progresso si sente sempre più distinto il Requiem della diversità. Se non si pone argine a questo strapotere, nel giro di qualche decennio si assisterà alla progressiva marginalizzazione di molte lingue a iniziare da quelle parlate dalle minoranze. E con esse anche una modalità di vedere il mondo, una sensibilità culturale, un patrimonio di conoscenze e di saperi diverrà materia museale. 

Nel caso a noi più vicino stiamo parlando del Sardo che, tra l’altro, ha ingaggiato già da tempo una lotta con il colonialismo italiano fatto non solo di lingua ma anche di scelte politiche, economiche e formative, e che ora al pari delle altre lingue minoritarie si troverà a fronteggiare un competitore ben più agguerrito e potente. 

Non accorgersi di quest’insidia o, peggio, far finta di nulla salvo poi rincorrerla con leggi mai al passo con la tumultuosa evoluzione tecnologica può avere effetti potenzialmente devastanti. 

Per restare in ambito europeo, nel Vecchio Continente si contano 60 lingue minoritarie parlate da oltre 46 milioni di persone (Fonte: Europarlamento) e tra queste rientrano per l’Italia, a titolo esemplificativo, il sardo, l’occitano, il friulano, il ladino (qui il link all’elenco completo). 

Lingue cui è riconosciuta importanza primaria e che sono tutelate con vari strumenti di tipo legislativo:  la “Carta europea per la tutela delle lingue minoritarie” del Consiglio d’Europa, la Costituzione italiana all’articolo 6 “La Repubblica italiana tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” (qui il link con la contestualizzazione storica), gli Statuti Speciali delle Regioni aventi rango costituzionale, le leggi statali (n.482/99) che implica anche interventi di tipo economico. 

La stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’articolo 2 tutela la lingua e il sardo è una tra quelle in cui tale dichiarazione è stata tradotta come mi ha ricordato in una conversazione il nostro sempre attento Nicola Pirina.

Questa straordinaria e importante produzione normativa, unitamente ai provvedimenti di carattere economico, rischia di essere spazzata via da una tecnologia dirompente, monolinguistica e monoculturale. 

Perché l’innovazione non è solo mera tecnologia ma processo innanzitutto culturale.

Senza un dibattito serio, aperto e urgente questa egemonia sarà inesorabile con tutte le conseguenze in termini di annichilimento delle diversità e delle pluralità linguistiche e culturali, preludio dell’annientamento dell’identità come ammoniva già nel 1977 il grande poeta Remundu Piras:

No sias isciau 

O sardu, si ses sardu e si ses bonu

Semper sa limba tua apas presente:

No sias che isciau ubbidiente 

Faeddende sa limba ‘e su padronu.

Sa nassione chi peldet su donu

De sa limba iscumparit lentamente,

Massimu si che l’essit dae mente

In iscritura che in arrejonu.

Sa limba ‘e babbos e de jajos nostros

No l’usades pius nemmancu in domo

Prite pobera e ruza la creides.

Si a iscola no che la jughides

Po la difunder menzus, dae como

Sezis dissardizende a fizos bostros.

Traduzione: 

Non essere schiavo

O sardo, se sei sardo e sei bravo,

abbi sempre presente la tua lingua:

non essere come uno schiavo ubbidiente

parlando (che parla) la lingua del padrone

La Nazione che perde il dono

Della lingua scompare lentamente,

soprattutto se gli esce dalla mente

in scrittura e discussione (nello scritto e nel parlato)

La lingua dei nostri padri e dei nostri nonni

Non l’usate più neanche in casa

Perché la credete povera e rozza.

Se non la portate a scuola

Per diffonderla meglio, da ora

State desardizzando i vostri figli

Siamo consapevoli o meno di questi rischi? 

E la strada che stiamo imboccando è quella giusta?