La forza degli assenti
La morte, brutalmente definitiva sul piano fisico, non cancella la memoria. Il ricordo dei nostri cari è un'impronta che modella le nostre vite e ci accompagna. Come racconta in questo articolo Nicola Pirina, CEO di Kitzanos.
Redazione
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03 Febbraio 2025
Tempo di lettura: 3 minuti

C’è qualcosa che la morte non può vincere, qualcosa che resiste alla sua presa implacabile. La presenza degli assenti nella memoria dei vivi. 

È un’idea che sembra paradossale, un capovolgimento di quella che consideriamo la verità ultima.

Che tutto finisce. Ma non è così. 

La morte, per quanto definitiva nel suo aspetto fisico, lascia spazio a una sopravvivenza che non conosce confini, quella del ricordo. 

E nel ricordo, gli assenti non sono mai veramente andati via.

La morte, nella sua brutalità, si illude di chiudere il cerchio. 

Ci strappa via un volto, una voce, un respiro. 

Ma ciò che resta, ciò che non può essere cancellato, è l’impronta che quella presenza ha lasciato nelle nostre vite. Gli assenti vivono nei frammenti che ci portiamo dentro: in un sorriso che rievochiamo, in una frase che torna alla mente nei momenti più inaspettati, in una risata che esplode ricordando una battuta dimenticata. È in questi momenti che comprendiamo quanto poco la morte riesca davvero a vincere.

Questa memoria, però, non è statica. 

Non è una reliquia polverosa che osserviamo da lontano. 

È viva, si muove con noi, si evolve. 

Gli assenti non restano fermi nel tempo; si intrecciano alle nostre esperienze, ci parlano nei momenti di dubbio, ci guidano quando ci sentiamo persi. È un dialogo silenzioso, un filo invisibile che ci lega a ciò che era e a ciò che continua a essere.

Eppure, questa presenza può essere un peso, una lama a doppio taglio. 

Il ricordo degli assenti può confortare, ma anche lacerare. Può riportare alla luce ciò che ci manca, amplificando il vuoto. 

Ma è proprio in quel dolore che si nasconde il segreto.

Il vuoto è la testimonianza di ciò che è stato pieno. Il dolore della mancanza è il prezzo dell’amore che abbiamo dato e ricevuto. È una ferita che non vogliamo chiudere del tutto, perché chiuderla significherebbe dimenticare.

In una società ossessionata dal presente, la memoria degli assenti è un atto di resistenza. Viviamo in un mondo che ci chiede di andare avanti, di essere produttivi, di non indugiare. 

Ma ricordare è un gesto rivoluzionario. 

È dire: “Non ti lascio andare. Non ti cancello per comodità”. 

La memoria non è solo un tributo al passato; è una costruzione del futuro. 

Gli assenti ci modellano, ci insegnano, ci spingono a essere migliori. 

Portiamo con noi le loro storie, le loro lezioni, le loro fragilità. 

E, in questo modo, continuano a vivere.

Forse, allora, non dobbiamo temere tanto la morte, quanto l’oblio. 

Perché ciò che davvero distrugge una vita non è il suo termine, ma la sua scomparsa dalla memoria collettiva. Ecco perché raccontiamo storie, scriviamo libri, conserviamo fotografie. 

Non è solo per ricordare.

È per assicurare che la vita degli assenti continui a pulsare attraverso le generazioni.

C’è qualcosa di profondamente umano in questa tensione tra presenza e assenza, tra vita e morte. È il nostro modo di ribellarci all’inevitabile, di dichiarare che non siamo fatti solo di carne e ossa, ma anche di connessioni, di ricordi, di legami. 

Gli assenti vivono perché li portiamo con noi. 

E finché continueremo a raccontare le loro storie, a evocare i loro nomi, a ridere e piangere per loro, la morte non potrà mai avere l’ultima parola.