Andrea Bonaccorsi, professore di Economia e Management nel Dipartimento di Ingegneria dell’Energia dei Sistemi del Territorio e delle Costruzioni dell’Università di Pisa è tra gli autori di un interessante articolo accademico pubblicato su “The Journal of Technology Transfer” nel quale sono illustrati gli esiti di uno studio dettagliato teso a capire se – ai fini della crescita aziendale – sia più importante l’istruzione o la ricerca. Un dibattito complesso che va avanti da tempo non solo in Italia e che ora si arricchisce di uno studio di dettaglio in grado di fornire anche la decisore politico importanti elementi di valutazione, indispensabili per adottare strategie coerenti e fruttuose.
1-Professor Bonaccorsi, qual è il risultato finale di questa ricerca e quali indicazioni utili se ne traggono?
Nello studio noi utilizziamo dati molto dettagliati a livello della singola impresa in tutti i paesi europei. Studiamo come vari indicatori di performance aziendale (fatturato, occupazione, totale attivo, totale attivo immateriale) sono influenzati dalla vicinanza delle università. Utilizziamo un censimento ufficiale che identifica tutte gli atenei in Europa, nominativamente, come risulta da un grande lavoro di collaborazione tra gli uffici di statistica nazionali, che ho iniziato più di dieci anni fa con vari progetti europei. Infine approfondiamo separatamente l’impatto che le università hanno sul fronte della ricerca (misurata con vari indicatori di pubblicazioni scientifiche) e sul fronte della didattica (numero di studenti e di laureati).
Quello che troviamo è interessante. Primo: l’impatto dovuto alla educazione è più ampio e pervasivo di quello dovuto alla ricerca. Secondo: l’impatto più ampio si ottiene quando sono elevati gli indicatori di entrambe le attività. Terzo: esiste un effetto territoriale che decresce con la distanza.
Quindi da un lato abbiamo conferma del modello tradizionale delle università europee, che combinano ricerca con didattica. Dall’altro però richiamiamo l’attenzione sul fatto che educare gli studenti e formare laureati è la missione con maggiore impatto sul sistema economico.
2-La riflessione sul tema sembra particolarmente urgente in questo momento nel quale l’Italia deve produrre un grande sforzo per sfruttare al massimo i fondi del PNRR così da migliorare il sistema Paese. Secondo lei che cosa dovrebbe fare il decisore pubblico?
Innanzitutto dovrebbe avere una visione a medio termine. Alla fine del PNRR avremo formato una nuova generazione di dottorandi, assegnisti e ricercatori di tipo A, tutte figure che non comportano posizioni tenured, cioè a tempo indeterminato. Quando saranno finite le risorse straordinarie le università non avranno abbastanza posizioni permanenti da offrire. I giovani andranno all’estero. Risultato: avremo speso molti miliardi, di cui beneficeranno gli altri paesi. Ci potremmo chiedere perchè i paesi del Nord Europa hanno concesso all’Italia fondi così ingenti con il Next Generation EU. La mia risposta provocatoria è questa: perchè hanno lasciato all’Italia il compito di formare i giovani, per poi prenderseli tutti tra qualche anno, già formati e pronti ad assumere ruoli produttivi e creativi. Non vedo alcuna consapevolezza di questo tema nel governo e, a dire il vero, nemmeno nelle università.
Sarebbe da pensare anche ad un percorso parallelo di formazione delle professionalità elevate necessarie ad inserirsi in azienda, come sbocco ulteriore rispetto alla carriera accademica. Tra 3-4 anni avremo dei giovani straordinariamente formati in molte aree scientifiche, ma che, avendo lavorato solo in laboratorio, non sanno niente di Project management o di budgeting. Aggiungiamo il tradizionale ritardo nelle aziende italiane nel riconoscere le competenze in ingresso dei laureati e dei dottori di ricerca.
3- Le università e le aziende che sono attori altrettanto importanti come dovrebbero organizzarsi?
Io suggerirei di organizzare un corso strutturato di contenuti in parallelo al lavoro scientifico, che integri competenze organizzative (Project management, Planning, gestione dei team, gestione dell’innovazione) e competenze economico-finanziarie (Budgeting, controllo di gestione, valutazione della R&S), da proporre a tutti i junior che sono entrati o entreranno con il PNRR (dottorandi, assegnisti, ricercatori). Aumenterebbe l’occupabilità dei profili in uscita. Ridurrebbe i tempi di transizione.
Le aziende devono cambiare drasticamente approccio. Nelle competenze elevate chi comanda il gioco è l’offerta, non la domanda. I giovani laureati nelle STEM e i dottorandi e dottori di ricerca sono interessati più alla qualità del lavoro che alla carriera immediata. Chiedono ambienti ad alto tasso di formazione e aggiornamento, sfidanti, aperti. Non sopportano il paternalismo dell’imprenditore tradizionale. Attraction e retention sono oggi i due problemi delle Risorse umane più difficili nelle aziende.
4-Il tema della formazione in senso ampio sta diventando sempre più centrale alla luce anche degli enormi cambiamenti sospinti dall’IA di cui Chat GPT ad esempio è solo una parte minuscola. A suo avviso come dovrebbe essere improntata la formazione tanto nelle aule universitarie quanto nelle imprese?
Io ho deciso di inserire Chat GPT in aula, facendolo usare agli studenti fin dal primo anno di corso considerato che, tra le altre cose, insegno Economia alle matricole di Ingegneria. Confesso che globalmente siamo impreparati a gestire una radicale riforma della didattica. Procediamo per tentativi. Ma la sfida va raccolta, subito.
5-Quali sono a suo avviso gli errori da non commettere?
Tecnofobia e tecnoillusione. Suggerirei di leggere “Power and Progress”, l’ultima fatica di Daron Acemoglu (economista turco tra i dieci più citati al mondo e docente al Massachusetts Institute of Technology – ndr). Mostra che il progresso tecnologico manifesta i suoi effetti positivi nella misura in cui diffonde i benefici “percolando” in tutta la società. Se i benefici sono ristretti solo alla frazione di popolazione istruita (diciamo francamente, solo ai laureati) e, all’interno di questa, solo alle posizioni apicali, l’effetto netto può essere negativo. Serve una progettualità ampia, che coinvolga tutti gli ambiti della società.
6-Come sarà a suo giudizio il mondo dell’università e delle imprese fra dieci anni e quali competenze saranno centrali?
Le università sono le istituzioni più longeve dell’Occidente, insieme alla Chiesa cattolica. Saranno resilienti e creative. Non vedo rischi di sostituzione o spiazzamento dalle nuove tecnologie. Certo la sfida è difficile perchè la didattica tradizionale si porta dietro un modello lineare e testuale che va integrato con le dimensioni orizzontali e iconiche delle nuove tecnologie. Ma il pensiero vince, sempre. Quindi le università resteranno centrali e aumenteranno le proprie responsabilità nei confronti della società.