In Italia innovazione è diventata una parola d’ordine onnipresente – eppure la realtà sul campo dipinge un quadro meno entusiasmante. Gli studi confermano che il Paese sconta un grave ritardo strutturale. Pur non mancando creatività – i brevetti sono aumentati nell’ultimo decennio – questo potenziale fatica a tradursi in progresso tangibile.
Ne risulta una frattura tra la retorica e la realtà dell’innovazione.
All’Italia manca una vera cultura dell’innovazione.
Un deficit culturale diffuso frena l’adozione delle tecnologie e impedisce a larga parte della popolazione di beneficiarne.
Ogni cambiamento sconvolge abitudini e assetti esistenti, generando resistenze.
Le scelte di mantenere lo status quo, però, non portano da nessuna parte – eppure prevalgono.
Molte imprese non integrano l’innovazione nei processi.
La digitalizzazione avanza, ma l’adozione resta insufficiente, specie tra le PMI.
Sul fronte strutturale pesano la carenza di competenze, la debolezza di reti e capitali, e un’eccessiva burocratizzazione che rallenta gli slanci di cambiamento.
Il nostro (sedicente) ecosistema dell’innovazione è frammentato e privo di visione sistemica.
Ricerca, università, startup e imprese viaggiano in ordine sparso.
Il trasferimento tecnologico dai laboratori al mercato avviene in modo sporadico e non strutturato, allo stesso modo le aziende faticano a fare rete, condividendo raramente conoscenze.
Anche le politiche pubbliche presentano competenze disperse tra troppi enti, senza una regia unitaria.
Poche eccellenze isolate non fanno sistema e persistono divari territoriali.
Scarsa propensione al rischio e paura del cambiamento radicale sono nodi cruciali. Fare innovazione non è un’attività simpatica e accomodante.
Implica sperimentare, investire e andare contro idee comuni e consolidate.
Quel coraggio manca a troppi imprenditori e investitori, chiusi nella comfort zone dei piccoli passi.
Il fallimento, parte integrante di ogni percorso innovativo, in Italia resta uno stigma più che una lezione.
Si è creato un divario tra retorica e pratica, nei convegni e sui media si celebra l’innovazione a parole, ma di rado si passa dai proclami ai fatti.
Ci auto-convinciamo che facciamo già innovazione ogni giorno o che sia già stata fatta a sufficienza in passato.
È un alibi gattopardesco, si parla di innovazione per non realizzarla davvero.
Chi padroneggia davvero l’innovazione – nei principi scientifici come nella pratica operativa – ha il dovere di guidare il cambiamento con visione e concretezza.
Questa avanguardia deve fungere da collante tra gli attori.
A chi fa impresa in Italia spetta un doppio dovere.
Essere avanguardia e responsabilità insieme.
Avanguardia nel rompere gli schemi e indicare nuove strade.
Responsabilità nel finalizzare il cambiamento a una crescita sostenibile e condivisa. Solo assumendo questa duplice veste l’imprenditore potrà trasformare la retorica in realtà, colmando il divario che frena il Paese.
Un sorriso, Nicola