Educare l’intelligenza, una sfida collettiva
L'intelligenza artificiale è tra le nuove tecnologie quella più dirompente. Entrerà dappertutto senza chiedere permesso. In questo scenario quale può e quale dev'essere il ruolo dell'essere umano? Ce ne parla il CEO di Kitzanos, Nicola Pirina, in questo articolo.
Redazione
Redazione
08 Dicembre 2025
Tempo di lettura: 8 minuti

Ci sono momenti nella storia in cui l’uomo deve fermarsi, guardare ciò che ha creato e chiedersi: chi educa chi?

Siamo di nuovo lì.

Le intelligenze artificiali stanno diventando maestri senza volto, oracoli che rispondono prima ancora che abbiamo finito di domandare. E le scuole, i luoghi che avrebbero dovuto insegnarci a dubitare, rischiano di diventare templi del copia-incolla cognitivo.

Il futuro dell’AI nella formazione non sarà una questione di strumenti, ma di civiltà.

Non si tratta di introdurre nuove tecnologie in classe, ma di decidere se vogliamo che l’educazione resti un atto umano o diventi un processo di addestramento algoritmico.
L’intelligenza artificiale entrerà dappertutto — e non chiederà permesso.

Sta già scrivendo, leggendo, traducendo, suggerendo, valutando.

È il nuovo specchio del sapere, ma riflette solo ciò che conosce.

E noi, troppo spesso, ci accontentiamo del riflesso.

Il rischio non è che l’AI prenda il posto dei docenti, ma che prenda il posto del pensiero.

Se la scuola si limita a integrare l’intelligenza artificiale come strumento didattico, senza ridefinire la propria missione, si trasformerà in un centro di aggiornamento software per cervelli disabituati alla complessità. Il problema non è tecnologico, è filosofico.

L’AI non è una rivoluzione didattica, è una rivoluzione ontologica: cambia il modo in cui concepiamo la conoscenza, la verità, l’errore, la memoria.

Per capire che futuro può avere l’AI nella formazione dobbiamo prima decidere che idea abbiamo dell’intelligenza. Se la riduciamo a capacità computazionale, allora la partita è persa: le macchine hanno già vinto. Ma se l’intelligenza è anche empatia, intuizione, memoria affettiva, capacità di creare senso, allora siamo solo all’inizio. Il futuro della scuola dipenderà dalla capacità di insegnare ai giovani a convivere con le macchine senza smettere di essere curiosi, imperfetti, poetici.
Educare l’intelligenza non significa insegnare alle macchine a essere più umane, ma insegnare agli umani a usare le macchine senza perdere sé stessi.

L’AI può essere la più grande alleata dell’educazione, se accettiamo di metterla al suo posto: non sopra, ma accanto. Può aiutare a personalizzare l’apprendimento, a costruire percorsi formativi su misura, a liberare tempo e risorse per l’insegnamento vero, quello che non si misura in test. Gli algoritmi possono riconoscere pattern cognitivi, adattare il ritmo delle lezioni, offrire feedback continui, tradurre testi, simulare scenari, rendere accessibile la conoscenza in tutte le lingue del mondo. Ma tutto questo ha senso solo se la scuola resta un laboratorio di senso, non una piattaforma di consumo educativo.
Perché la conoscenza non è un contenuto da distribuire, è una relazione da generare.

Il mondo dell’educazione è stato lento nel comprendere che il digitale non è un accessorio ma un habitat.

I bambini che nascono oggi non usano la tecnologia, la respirano.

Crescono in un ecosistema informativo dove la distinzione tra naturale e artificiale è già obsoleta.

Per loro, chiedere a un’AI è come per noi aprire un libro.

La domanda non è se dobbiamo permetterlo, ma come possiamo educarli a farlo bene.

Il nuovo analfabetismo non sarà quello di chi non sa leggere, ma di chi non sa interpretare ciò che la macchina produce.
L’educazione dovrà allora insegnare non tanto a usare l’AI, ma a riconoscerne i limiti, le ambiguità, i bias, le omissioni.

In altre parole, a pensare l’AI.

Immagina un futuro in cui ogni studente ha accanto un tutor cognitivo digitale: un compagno che conosce i suoi ritmi, le sue paure, le sue curiosità. L’AI potrà suggerire percorsi, generare simulazioni, offrire esperienze immersive nei mondi della scienza e della storia. La realtà aumentata e la realtà mista trasformeranno la didattica in un’esperienza multisensoriale, dove imparare sarà come viaggiare. Ma tutto questo rischia di fallire se non ricostruiamo il senso della presenza.

La scuola è anche sguardi, respiri, silenzi.

È l’imperfetta magia dell’incontro.

E se dimentichiamo questo, nessuna intelligenza artificiale potrà restituircelo.
Per questo, l’AI deve diventare pedagogia aumentata, non pedagogia sostituita.

Nei prossimi anni vedremo un’esplosione di piattaforme educative basate su AI generativa: assistenti per la scrittura, interpreti istantanei, generatori di esercizi, valutatori automatici, sistemi di tutoring adattivo.

Ma la vera sfida non sarà tecnologica: sarà etica.

Chi addestra questi modelli?

Su quali dati si formano?

Quali visioni del mondo incorporano?

Ogni algoritmo didattico contiene una filosofia dell’educazione, spesso implicita.

Se lasciamo che siano le grandi piattaforme a definirla, perderemo la nostra sovranità culturale.
Dobbiamo creare intelligenze educative locali, con linguaggi, valori e visioni che riflettano la pluralità del pianeta.

Una scuola globale non può nascere da un solo codice.

L’AI nella formazione potrà democratizzare la conoscenza solo se sapremo costruire infrastrutture aperte, pubbliche e trasparenti.

Serve una educazione open source, dove gli strumenti siano accessibili a tutti e non monopolizzati da pochi attori.

Il sapere non può diventare un servizio in abbonamento.

Il rischio di un nuovo colonialismo cognitivo è reale: piattaforme che dettano cosa è vero, quali fonti contano, quali valori sono neutrali.

Ma nulla è neutrale, nemmeno un algoritmo.
Per questo, la nuova alfabetizzazione digitale dovrà includere la capacità critica di leggere il potere dietro il codice.

Insegnare ai giovani a domandarsi: chi ha scritto questo algoritmo?

Perché?

Con quali conseguenze?

L’AI potrà anche essere una straordinaria maestra di creatività, se la usiamo come provocazione e non come stampella. Potrà aiutare gli studenti a esplorare possibilità, a scrivere, comporre, disegnare, immaginare mondi. Ma bisognerà insegnare loro che la creatività non è il risultato, è il processo. L’AI può proporre infinite varianti, ma non può scegliere quella che ci rappresenta.

Solo l’essere umano può dire questo sono io.
Educare all’AI significa educare al discernimento, alla scelta consapevole.

In un mondo dove tutto è possibile, il valore tornerà alla capacità di dire no.

C’è poi il tema del docente, spesso dimenticato nel discorso sulla tecnologia.
L’insegnante non è un vettore di contenuti, è un architetto di esperienze cognitive. L’AI può liberarlo dal peso della burocrazia, ma non può sostituirne la presenza simbolica. La scuola non è un luogo dove si trasmette informazione: è uno spazio in cui si trasforma l’energia mentale in significato.
I docenti del futuro dovranno imparare a dialogare con l’AI come con un collega, non come con un concorrente. Dovranno diventare curatori di intelligenze, in grado di orchestrare l’umano e l’artificiale.

E questo richiede formazione, coraggio e una nuova etica del mestiere.
Insegnare non sarà più solo un lavoro: sarà un atto di resistenza culturale.

Ma il futuro dell’AI nelle scuole non si gioca solo nella didattica: si gioca nell’idea stessa di formazione.

L’apprendimento diventa continuo, fluido, ubiquo.

Le piattaforme di lifelong learning basate su AI creeranno percorsi personalizzati lungo tutta la vita, anticipando le esigenze del lavoro, della società, della mente.

L’educazione smetterà di essere un periodo della vita per diventare una forma di vita.
E forse, per la prima volta, potremo costruire una società in cui la conoscenza non divide ma connette. Dove non si studia per competere, ma per comprendere.

Immagina un pianeta dove ogni comunità ha accesso a un sistema di AI educativa adattiva, alimentato da conoscenze locali e globali, in grado di insegnare nella lingua madre di ogni bambino, con esempi legati alla cultura, alla terra, al contesto.

Un’AI che non omologa, ma amplifica le diversità.

Sarebbe la più grande rivoluzione umana della storia: non la conquista dello spazio, ma la conquista dell’equità cognitiva.
Questo è il futuro possibile, se lo vogliamo progettare come umanità e non come mercato.

Ma dobbiamo anche prepararci al lato oscuro.
Le stesse tecnologie che possono liberare la mente possono anche colonizzarla.

I sistemi di tracciamento dell’apprendimento, i modelli predittivi delle performance, i profili cognitivi generati da AI possono diventare strumenti di sorveglianza, di manipolazione, di esclusione.

La linea tra supporto e controllo è sottile.
Serve una pedagogia della trasparenza, un’etica dell’algoritmo che ponga limiti chiari e principi inviolabili. La scuola deve restare il luogo dove si impara la libertà, non dove si addestra la conformità.
L’AI deve essere strumento di emancipazione, non di disciplinamento.

Forse allora dovremo smettere di parlare di AI nelle scuole e cominciare a parlare di scuole dell’intelligenza.
Luoghi dove si educa la mente umana e quella artificiale insieme.

Dove si insegna alle macchine a essere più giuste e agli uomini a essere più saggi.
Perché il vero futuro dell’educazione non è nel digitale, ma nel dialogo.
Tra cervello e codice, tra emozione e logica, tra sapere e coscienza.

Quando la scuola capirà che l’intelligenza non è un talento ma una responsabilità, allora l’AI sarà finalmente un’alleata e non un rischio.
Il giorno in cui i bambini impareranno a chiedere a un algoritmo non “dammi la risposta” ma “spiegami perché è questa la risposta”, allora sapremo che l’educazione è salva.
Non dobbiamo difendere la scuola dal futuro, dobbiamo insegnarle a riconoscerlo.

Le macchine impareranno a scrivere saggi, a correggere compiti, a creare immagini perfette. Ma solo gli esseri umani potranno insegnare la bellezza dell’errore, la forza del dubbio, la grazia della lentezza.
E sarà questa la linea di confine tra intelligenza e coscienza.

Il futuro dell’AI nella formazione non dipende da ciò che la macchina saprà fare, ma da ciò che l’uomo saprà ancora desiderare.
Se sapremo mantenere vivo il desiderio di capire, di creare, di immaginare, allora nessun algoritmo potrà rubarci l’anima.
L’educazione, alla fine, non è altro che questo, il modo in cui un’epoca insegna a un’altra come restare umana.

Il futuro non si insegna. Si trasmette come una fiamma.

Un sorriso, Nicola