E se…
Infrastrutture fisiche e digitali e soprattutto una nuova cultura del lavoro che rimetta le persone al centro. Sono i presupposti per ecosistemi in cui talento, creatività e innovazione possono prosperare. Il punto di vista del CEO di kitzanos, Nicola Pirina.
Redazione
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28 Febbraio 2025
Tempo di lettura: 4 minuti

Il mondo del lavoro sta vivendo una metamorfosi che non può più essere ignorata. 

La flessibilità e la creatività sono diventate requisiti fondamentali, ma non devono essere interpretate come una richiesta generica di adattabilità o come slogan vuoti. Questi concetti si radicano in un cambiamento più profondo, che mette in discussione non solo il ruolo che le persone ricoprono nelle imprese, ma anche il significato stesso del lavoro e il suo rapporto con i territori.

Chi decide di aprire un’impresa oggi deve abbandonare l’idea che questa sia unicamente una scorciatoia verso sussidi o incentivi. La cultura della dipendenza dagli aiuti pubblici, seppur necessaria per garantire la sopravvivenza di molti, rischia di trasformarsi in un vicolo cieco se non è accompagnata da una visione strategica. Il sussidio non può essere una stampella permanente, ma uno strumento temporaneo che consenta alle persone di costruire progetti solidi e innovativi. 

Senza questa trasformazione culturale, rischiamo di perpetuare un sistema che non solo non crea valore, ma che erode anche le basi su cui si fondano le comunità.

A rendere ancora più urgente questa riflessione è il rapporto tra le nuove concezioni di lavoro e i territori meno competitivi. 

Le aree periferiche e marginalizzate soffrono di una doppia penalizzazione. 

Da un lato, l’assenza di investimenti strutturali e formativi le priva delle infrastrutture fisiche e digitali necessarie per attrarre opportunità. Dall’altro, la fuga di giovani talenti in cerca di prospettive migliori altrove alimenta un ciclo di spopolamento che sembra inarrestabile. 

È un processo che lascia i territori morti prima ancora che si svuotino fisicamente. 

Eppure, paradossalmente, questi stessi territori potrebbero essere la chiave per una nuova visione del lavoro, se considerati non come spazi inerti, ma come laboratori di innovazione e coesione sociale.

Per invertire questa tendenza, serve una nuova cultura del lavoro, una che metta le persone e non i profitti al centro. Questo significa ridefinire le priorità delle politiche pubbliche, concentrandosi su investimenti strategici in istruzione e formazione. Senza un sistema educativo forte, capace di preparare le nuove generazioni non solo alle sfide tecniche ma anche a quelle etiche e culturali, i territori continueranno a languire. 

Ma istruzione non significa solo fornire competenze tecniche. 

Significa anche coltivare la capacità di immaginare, innovare e costruire comunità resilienti. Significa insegnare non solo come adattarsi al cambiamento, ma come guidarlo.

Il problema è che oggi molte delle discussioni sul lavoro sembrano avulse dal contesto umano. Trattiamo le persone come numeri, come unità di produzione o consumo, ignorando che il vero valore del lavoro è quello di creare relazioni, di generare appartenenza e senso di scopo. 

Se non rimettiamo le persone al centro delle nostre politiche e delle nostre comunità, non stiamo ragionando in maniera corretta. 

Perché il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, è un elemento fondamentale del tessuto sociale, un veicolo attraverso il quale costruiamo identità e prospettive comuni.

Nei territori meno competitivi, il lavoro potrebbe diventare l’elemento cardine per una rinascita, ma solo se accompagnato da un cambiamento radicale nelle priorità politiche ed economiche. 

Dobbiamo chiederci cosa significhi davvero investire nelle persone. 

Non si tratta solo di finanziamenti a pioggia o di misure di emergenza. 

Si tratta di creare ecosistemi in cui il talento, la creatività e l’innovazione possano prosperare. 

E si tratta, soprattutto, di costruire una narrativa nuova, in cui il valore di un territorio non si misura solo in termini economici, ma anche in termini di qualità della vita, di relazioni umane e di capacità di reinventarsi.

L’era della flessibilità e della creatività richiede coraggio. 

Coraggio di ripensare modelli ormai obsoleti, di investire dove sembra più difficile farlo, di credere che le persone possano essere la risposta, e non il problema. 

Questo richiede visione e leadership, ma soprattutto richiede la volontà di guardare al di là delle contingenze immediate, per costruire un futuro che sia non solo sostenibile, ma anche profondamente umano.

Nicola

Immagine di Vectorarte su Freepik