C’è qualcosa di profondamente inquietante nel vedere che in regioni come l’Emilia Romagna, un esempio di efficienza amministrativa, infrastrutture solide e governance storicamente virtuosa, la partecipazione elettorale continua a scendere.
Il problema non è solo statistico, ma culturale, sociale e, soprattutto, politico. Come è possibile che, anche laddove le cose funzionano meglio, la fiducia nel sistema democratico sembri dissolversi?
È forse proprio nell’apparente perfezione che si annida la radice del disinteresse?
Per anni abbiamo creduto che il funzionamento di un territorio fosse sufficiente a legittimare la politica. Una regione che genera opportunità economiche, investe nella sanità e nell’istruzione e garantisce una certa equità sociale dovrebbe, in teoria, produrre cittadini soddisfatti e pronti a confermare il loro sostegno attraverso il voto.
Eppure, non è così.
L’astensionismo non è solo una questione di insoddisfazione.
Sempre più spesso è un sintomo di apatia, di alienazione, di un rapporto incrinato tra cittadini e istituzioni.
In Emilia Romagna, come altrove, il problema non è solo politico, ma antropologico.
Siamo di fronte a una generazione di elettori che percepiscono il voto come un atto privo di impatto reale.
La complessità del sistema democratico, che un tempo era una conquista, oggi appare come una distanza incolmabile. In un’epoca in cui tutto si misura in termini di immediatezza – dal clic che ordina una cena alla risposta istantanea di un assistente virtuale – l’idea di un voto che richiede tempo, riflessione e che produce effetti spesso dilazionati nel tempo sembra anacronistica.
La disaffezione al voto non è necessariamente un segno di ignoranza o di disinteresse. Spesso è una forma di protesta silenziosa, un modo per dire che il sistema, per quanto ben oliato, non risponde più ai bisogni profondi delle persone.
In Emilia Romagna, regione simbolo di buon governo, la questione si fa ancora più paradossale.
Qui, dove il modello funziona, il voto dovrebbe essere un atto di conferma, di riconoscimento.
Ma forse è proprio il funzionamento stesso che genera una nuova forma di distanza. Quando tutto sembra andare bene, il cittadino può sentirsi superfluo, marginale, non necessario.
C’è anche una questione di narrazione politica.
I partiti, negli ultimi decenni, hanno perso la capacità di parlare in modo autentico ai cittadini. Le campagne elettorali si sono ridotte a slogan, a logiche di marketing, a promesse spesso percepite come vuote. In un contesto come l’Emilia Romagna, dove il tessuto sociale è storicamente radicato nella partecipazione collettiva, questo disallineamento è ancora più evidente. La politica, invece di ispirare, sembra ormai un rituale stanco, incapace di generare entusiasmo o visioni di lungo termine.
E poi c’è la questione della complessità.
Il cittadino medio, immerso in una realtà frammentata e iperconnessa, è bombardato da informazioni che spesso si contraddicono.
L’idea stessa di partecipazione si è trasformata.
Si partecipa sui social, si firma una petizione online, si scende in piazza per un flash mob.
Ma il voto, con la sua ritualità silenziosa e apparentemente lenta, sembra lontano anni luce da queste nuove forme di espressione.
In Emilia Romagna, come altrove, questa distanza rischia di diventare un abisso.
Se anche dove le cose funzionano meglio la gente non vota, il problema non è solo degli elettori. È un segnale chiaro che la democrazia, così come è strutturata, necessita di un ripensamento profondo.
Non basta amministrare bene.
Bisogna coinvolgere, ispirare, far sentire che ogni singolo voto ha un peso.
Il problema non è nella testa degli elettori, ma nel cuore delle istituzioni.
E se non troviamo un modo per ricostruire quel legame, rischiamo di trovarci con città e regioni efficienti, ma prive di anima democratica.
E allora, a che cosa sarà servito tutto questo funzionare?
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