Col naso all’insù
La space economy, sinora dominio esclusivo dei giganti, diventerà realmente decisiva per la vita di ognuno di noi solo quando sarà fruibile e aperta a una miriade di altri attori. Ma riusciremo a non farne uno strumento di controllo e di dominio? La riflessione sul punto di Nicola Pirina, CEO di Kitzanos.
Redazione
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06 Novembre 2024
Tempo di lettura: 6 minuti

Siamo agli albori di una nuova era, un momento che ricorda il sorgere di Internet, quando pochi visionari, allora visti come nerd eccentrici, vedevano un futuro digitale che il resto del mondo non poteva ancora immaginare.  La space economy oggi si trova in una fase simile. Un territorio ancora in gran parte inesplorato ma carico di possibilità che toccano ogni settore, dall’industria all’ambiente, dalla sicurezza alla prevenzione delle catastrofi. 

Un ecosistema in cui le tecnologie satellitari, sub-satellitari, radar, puntatori e mezzi di volo avanzati non sono più strumenti isolati, ma frammenti di un puzzle globale che ha il potenziale di trasformare il nostro rapporto con il pianeta. In questo contesto, la domanda non è più se queste tecnologie cambieranno la nostra vita, ma chi saranno i pionieri in grado di sfruttarne a fondo le possibilità. Fino ad ora, la space economy è rimasta un dominio esclusivo di giganti – governi, forze militari, grandi conglomerati – che la usano principalmente per difesa e per la raccolta di dati a livello strategico. 

Tuttavia come è accaduto per Internet, è solo una questione di tempo prima che si apra a una miriade di altri attori.  Ci saranno visionari capaci di intravedere il potenziale delle tecnologie di osservazione, modellazione predittiva e integrazione AI e ML, non solo per scopi militari o di controllo, ma per creare un ecosistema sostenibile in grado di prevedere e prevenire catastrofi naturali, monitorare i cambiamenti climatici in tempo reale e preservare le risorse della Terra.

Le tecnologie di osservazione e i modelli predittivi avanzati ci permetteranno, per la prima volta nella storia, di leggere il pianeta come un libro aperto. Immaginiamo un mondo in cui possiamo prevedere con precisione fenomeni come terremoti, uragani, inondazioni, grazie all’interconnessione tra satelliti, radar, droni e supercomputer. Questo è un potenziale tanto ambizioso quanto realistico.

Un insieme di gemelli digitali territoriali, repliche virtuali dei nostri spazi fisici, capaci di dialogare tra loro e di reagire in anticipo, rilevando segnali invisibili all’occhio umano. Come fanno le piante. Anzi, forse meglio. Se saremo intelligenti. Questa visione non è una mera fantasia, è già in costruzione e poggia sulla straordinaria capacità della tecnologia moderna di raccogliere, analizzare e modellare i dati su scala planetaria.

E qui arriva il nodo della questione. Riusciremo a sfuggire alla tendenza a trasformare ogni innovazione in uno strumento di controllo o, peggio, di conflitto? La storia insegna che le tecnologie emergenti, almeno in una prima fase, finiscono spesso nelle mani di coloro che possono permettersi di finanziarle, ovvero governi e multinazionali. Eppure, la speranza che la space economy possa diventare un terreno fertile per iniziative sostenibili e collaborative non è del tutto vana. 

Se i primi pionieri dell’Internet commerciale hanno gettato le basi per una nuova economia globale, quelli della space economy potrebbero fare altrettanto, con una differenza sostanziale. Questa volta non stiamo solo collegando individui e mercati, stiamo costruendo una rete che connette l’intero pianeta ai suoi dati, ai suoi modelli, alle sue previsioni.

La vera rivoluzione della space economy arriverà quando riusciremo a renderla accessibile anche a realtà più piccole: università, centri di ricerca, ONG e persino startup potranno accedere e utilizzare dati satellitari e sistemi di modellazione per scopi civili, ambientali e sociali. I veri visionari saranno coloro che riusciranno a comprendere che queste tecnologie non sono solo strumenti di potere, ma di collaborazione e prevenzione. 

Visionari capaci di immaginare che la space economy può diventare un’infrastruttura pubblica globale, dove l’intelligenza artificiale e i modelli di machine learning operano non per sorvegliare e controllare, ma per proteggere e preservare. Forse il futuro della space economy sarà scritto da coloro che oggi lavorano nel silenzio, immaginando applicazioni diverse da quelle dominanti. Pensiamo a uno scenario in cui una rete di gemelli digitali – modelli virtuali di ambienti terrestri, marini e atmosferici – interagisce continuamente per creare un sistema di allerta globale. Un terremoto che sta per scatenarsi in un punto specifico della Terra non sarebbe più solo un disastro incombente ma un’informazione preziosa, rilevata e diffusa in tempo per salvare vite umane.

La sfida, dunque, è fare in modo che questa tecnologia  non diventi un altro strumento di disuguaglianza. Riusciremo a costruire un nuovo mondo dove la prevenzione delle catastrofi e la protezione dell’ambiente diventino parte di una politica globale condivisa? 

La risposta sta in coloro che oggi, silenziosamente, spingono verso una visione più ampia, che non guarda solo alla potenza tecnologica, ma alla responsabilità collettiva. I pionieri della space economy non saranno solo ingegneri e scienziati, ma pensatori etici, leader capaci di comprendere che il vero successo non sarà misurato dalla supremazia, ma dalla cooperazione e dalla capacità di prevenire e mitigare i danni che incombono su un pianeta che chiede protezione. Siamo forse di fronte a una delle ultime possibilità di immaginare una rivoluzione tecnologica guidata non solo dal profitto e dal potere, ma dal valore del bene comune.

Vi ricordate il video della Pixar intitolato “La luna”?

Il corto è davvero un esempio perfetto di come il cambiamento sia un elemento naturale e inevitabile, qualcosa che, per quanto si tenti di bloccare, trova sempre il modo di emergere. Nel video, il ragazzino, con il suo sguardo fresco e la sua creatività, stupisce nonno e padre rivoluzionando il loro modo di vedere e di lavorare. Questa scena cattura con semplicità un messaggio profondo: i paradigmi rigidi e le rendite di posizione sono solo zavorre che rallentano il progresso, tenendo l’innovazione a distanza. 

Il tentativo di ancorarsi al proprio conosciuto è, infatti, una trappola. Quando ci si aggrappa troppo saldamente a ciò che è già familiare, si rischia di scivolare nell’oscurantismo, in una sorta di regressione che paralizza. 

Il cambiamento è come in quel video. Può avere forme diverse, può essere colta da prospettive inedite e, soprattutto, è lì per essere modellata, osservata, capita con occhi nuovi. Chi resta ancorato al passato e rifiuta questa inevitabile trasformazione non solo si isola dal futuro, ma si chiude alla possibilità stessa di creare un domani diverso. Il genio innovativo non risiede nel mantenere tutto immutato, ma nell’aprire la porta a nuove possibilità e a nuovi modi di interpretare il mondo, anche quando sembrano andare contro le tradizioni consolidate. 

Fermare il cambiamento è impossibile. Chi ci prova finisce per diventare l’antagonista di una storia di progresso che continuerà a evolversi, con o senza di lui.

AstrofisicaMente, Nicola